JE T’ AIME

L’arte contro la violenza sulle donne

a cura di Virginia Monteverde

critica di Stefania Giazzi

SPAZIO46 di PALAZZO DUCALE – GENOVA

7/29 MAGGIO 2016

Il tema della mostra scelto dalla curatrice Virginia Monteverde affronta immediatamente una realtà sottaciuta per molto tempo, che necessita di una presa di coscienza e di un ripensamento della collettività in termini di prevenzione e di protezione delle vittime. Il percorso scelto dalla curatrice per riflettere su questo argomento è singolare: invita sette artisti di sesso maschile ad esprimere con il loro sguardo un punto di vista su questo aspetto oscuro della società.

Gli artisti scelti dalla Monteverde utilizzano varie tecniche espressive, attraversano diagonalmente molti linguaggi aprendo molteplici finestre di dialogo con lo spettatore. Allo stesso modo la scelta degli artisti apre un confronto di approccio al problema sul modo in cui si manifesta la violenza sulle donne. Nel suo libro “Donne che corrono coi lupi” Clarissa Pinkola Estés, psicanalista junghiana, afferma:

La mia generazione, quella del dopoguerra, è cresciuta in un’epoca in cui la donna era trattata come una bambina e come una proprietà. Era tenuta come un giardino incolto..ma per fortuna qualche seme selvaggio arrivava sempre, portato dal vento. Sebbene quel che le donne scrivevano non fosse autorizzato, comunque continuarono a diffonderlo. Sebbene quel che dipingevano non ottenesse alcun riconoscimento, comunque nutriva l’anima.

Le donne dovevano implorare per ottenere gli strumenti e gli spazi necessari alle loro arti, e, se nulla era concesso, trovavano il loro spazio negli alberi, nelle caverne, nei boschi, e nei gabinetti.

La danza era appena tollerata, forse, e perciò danzavano nella foresta, là dove nessuno poteva vederle, o nel seminterrato, o mentre andavano a buttare la spazzatura. L’ornamento della persona metteva in sospetto. Un corpo felice o un vestito accrescevano il pericolo di subire un torto o di venire aggredite sessualmente. Perfino gli abiti che portavano non potevano essere definirsi i loro”.

Molte artiste contemporanee hanno espresso la sofferenza subita: da Frida Khalo, il cui corpo martoriato da un gravissimo incidente e da molteplici operazioni venne da lei ritratto in una sorta di dimensione onirica, lacerato ed umiliato dai numerosi tradimenti di Diego Rivera, noto artista messicano di murales a sfondo sociale, cui fu legata da un legame ossessivo.

Artiste come Gina Pane hanno agito il corpo come mezzo di comunicazione della sofferenza, inscenando, come nella performance “ Azione sentimentale” del 1973, le lacerazioni della presa di coscienza dell’essere donna, del proprio corpo, in una società in cui ancora oggi viene richiesto il sacrificio delle donne.

Marina Abramovich nelle sue performance con il compagno Ulay ha messo in scena l’impossibilità di dialogo tra uomo e donna, lo scontro che accende la violenza e la distanza che porta alla fine del rapporto.

Altre artiste hanno palesemente contestato i pesanti condizionamenti culturali sulle donne agendo su di sé attraverso la negazione della propria identità rinnegata, come l’artista Orlan i cui tratti somatici sono stati più volte modificati da operazioni che la trasfigurano.

La stessa operazione comunicativa viene operata da Cindy Sherman che, seppur negando la volontà di aderire ad una protesta di tipo femminista, nelle sue opere propone veri e propri set d’impostazione cinematografica in cui vengono accuratamente ricostruiti universi femminili intrappolati nelle convenzioni sentimentali e culturali.

Regina Josè Galindo, giovane artista guatemalteca, ha denunciato gli abusi sui fragili corpi delle donne e sui più deboli, partendo dal suo stesso corpo usato come contenitore di torture ed umiliazioni, toccando gli estremi della rappresentazione della violenza sulle donne.

I sette artisti che partecipano a questo progetto hanno restituito dignità alla donna ed al suo corpo, hanno colto le sfaccettature di un faticoso vissuto che continuamente ricerca il cambiamento, cercando di sfuggire al vischioso retaggio di certa cultura retrograda, unendosi in un mantra collettivo di pensiero.

Ulrich Elsener, nato a Biel nel 1943, al confine tra la Svizzera francesce e tedesca, nella sua ricerca parte inizialmente da una mappatura dell’esistente, territorio fisico ed al contempo immaginario del femminile. Nella sua opera viene celebrata la sensualità del corpo nudo, possente, disteso sul mondo. Esso è forza generatrice, depositaria e conservatrice del genere umano. A questo potere, riconosciuto e temuto, si contrappone l’abuso dei corpi femminili, la loro mercificazione per umiliarlo, imponendo il dominio su di esso. Questo corpo riverso sui continenti descrive la distorta sessualità imposta alla donna, costretta a rinunciare alla sacralità del suo tempio, all’indiscusso potenziale di vita per sottomettersi al desiderio maschile.  Il tratto di Elsener, ad inchiostro ed acrilico, che disegna la geografia del corpo sulla geografia del mondo, sovraimprime origine della Terra ed origine del mondo umano; fonde potere istintuale, magma e spiritualità, procede verso la purificazione del corpo e del mondo attraverso le vie degli oceani.

Michelangelo Galliani, classe 1970, originario di Montecchio dell’Emilia, è da sempre dedito alla scultura. Già giovanissimo ha iniziato a travasare il suo sapere nella creazione. Il marmo ed il piombo sono i complementari della sua ricerca. Egli pazientemente corrompe la staticità del materiale plasmandolo con perizia nell’attesa che dal nucleo della materia affiori la forma, elimina tutto ciò che è superfluo giungendo all’essenziale.  La metamoforsi del marmo si compie elevandosi in tutta la sua purezza, facendo emergere corpi e volti estatici, memori della loro condizione di deità, assurti a simbolo della perduta bellezza del mondo. Tuttavia il desiderio dell’artista dall’estasi della perfezione si è esteso alla contaminazione dei materiali, sperimentando assieme alla durezza del marmo inciso la duttilità del piombo, dando origine a sculture che indagano la possibilità di interazione tra materiali, creando nuove simmetrie visive.  Nell’opera presentata in mostra, “Col tempo”, 2016, realizzata in piombo e cera, possiamo cogliere il progetto ultimo dell’artista.

I materiali usati già ne prefigurano la trasformazione: con una forzata accelerazione della disintegrazione della materia, Galliani pone all’interno del cuscino di piombo una resistenza.  Essa andrà a liquefare la preziosa reliquia su di esso appoggiata, una delicata testa di cera. Da sempre affascinato dalla bellezza, ora ne rappresentà la caducità, ne considera la fragilità e l’inevitabile estinguimento. Allo splendore iniziale si sostituisce lentamente il deterioramento, i tratti diventano incerti sino a scomparire, la forma si dissolve, torna all’informe. Ci si dimentica della bellezza, tutto ciò che vi era prima è cancellato. Rimane solo il silenzio, dopo.

Visita https://www.stefaniagiazzi.it/michelangelo-galliani/

Gianluca Groppi, nato a Piacenza nel 1970, vive e lavora a Genova.

La sua fotografia, per cui solitamente predilige l’uso del bianco e nero, nasce dalla necessità di esprimere stati d’animo ed angosce, di smascherare le ipocrisie celate da consuetudini di comodo; le sue opere tuttavia, anche affrontando un certo malessere, non sono scevre di una certa ironia. L’immagine che ne scaturisce è frutto di un percorso mentale, di meticolosa preparazione del dettaglio che restituisce il clima interiore del soggetto rappresentato. I lavori scelti per questa mostra svelano il pensiero dell’artista in rapporto ad una società che tenta di schiacciare l’identità del singolo, appiattendolo in una omologazione che ne cancella le singolarità, incasellate in schemi pre-definiti.

Nella serie “Denied”, una donna vestita di bianco su di uno sfondo bianco, quasi (con)fusa nel vuoto del bianco e dell’indistinto, indossa provocatoriamente una maschera e vi imprime a lettere scarlatte l’aggettivo “denied”, negato, compiendo un’azione di denuncia delle prevaricazioni sociali. In “A forest”, fine art digital print, l’artista ci consegna al primo sguardo una situazione di apparente tranquillità, una donna ci osserva serena in un contesto naturale.

Non appena lo sguardo approfondisce i particolari, si comprende che il fotografo ha voluto inscenare una lapidazione, dolorosa messinscena che riflette sulla teatralità del gesto di violenza collettivo, scaturito dal giudizio su di una scelta personale non condivisa né codificata, pericoloso precedente di libertà non autorizzate, violenza cui tuttavia la donna non si sottrae.

To be continued, per le generazioni future.

Giancarlo Marcali, nato a Richterwil – Svizzera nel 1963, vive in Brianza.

L’opera dell’artista si distingue per la ricerca sui corpi, sezionati, radiografati ed esposti in pannelli di acetato od in scatole specchio. La sua è una riflessione sul dolore che mette a nudo, espone la nostra fragilità, come gesto di condivisione che ci connette agli altri. Dell’io che esce dagli usuali schemi di rappresentazione del sé per mostrare la nostra natura più intima, celata agli altri. Nell’opera che viene presentata in mostra, il dittico intitolato “La perte, la douleur, la renaissance”, grafia su cartoncino, spilli, vetro, la violenza che viene rappresentata è quella del suicidio di un figlio. Attraverso il tragico strappo operato dal figlio, la madre percorre i passaggi della dissoluzione e della ricostruzione del sé, in una ininterrotta autoanalisi. Il viso disfatto della donna è costituito da segni, domande e parole che sono state dette, che avrebbe voluto dire, sentire, decifrare.  Le lacrime sono spilli che sgorgano dalla profondità del suo dolore, che gridano la sofferenza, scavano solchi, espiano e conducono infine alla trasformazione dell’invidivuo, mondato e risvegliato ad una nuova coscienza.

Finalmente trovando la via per la rinascita di un nuovo sé.

Gianni Caruso, nato a Dekamerè, Etiopia, nel 1943 è un artista eclettico che ha sperimentato vari linguaggi dell’arte, dalla pittura alla scultura, dall’installazione al video. Per questa mostra ha usato come mezzo la fotografia: un trittico in bianco e nero che rappresenta uno spaccato della vita di due donne. La denuncia che intende fare l’artista, da sempre impegnato nel generare codici di comunicazione d’avanguardia, riguarda la condanna della società nei confronti dell’omosessualità. La scelta dell’artista è di entrare a contatto con questa intimità ritraendo le due donne in un gesto affettuoso eppure trattenuto, una delle due ripresa di spalle, negata allo sguardo dell’osservatore, significando non tanto il pudore ma invece la necessità e l’abitudine a nascondersi.

La sequenza delle fotografie ci porta all’interno del loro luogo d’affetti, essenziale, composto da un’atmosfera rarefatta, di superfici levigate e di pochi oggetti che rimandano alla natura, alberi e girasoli, mettendo in risalto il legame del femminile con la creazione; la figura ritratta mentre dorme, nella sua naturale sensualità, è immersa nel bianco delle lenzuola di lino e nella luce che penetra dalla finestra a dirci che vi è purezza nel suo essere. L’artista invita ad andare oltre l’immaginario di trasgressione legato all’omosessualità mostrandoci un normale vissuto quotidiano messo in pericolo nella sua integrità dal giudizio di una società intrisa di stereotipi.

Giuliano Galletta nasce a Saronno nel 1955.

Arguto giornalista, lucido intellettuale che osserva e si osserva, è un artista che è arduo classificare.

Sperimentatore e dissacrante spettatore del sociale, critica il consumismo di massa inducendo a riflettere sul bagaglio culturale che noi tutti crediamo di avere acquisito autonomamente, senza essere consapevoli di ogni bisogno che dal sistema capitalistico ci è stato indotto, sommersi da un mare di oggetti inutili (da cui la metafora dell’Almanacco, che dovrebbe raccontare l’autore ed il suo vissuto che scopre – come un cassetto – essere colmo di oggetti, ricordi, desideri che l’autore non riconosce designino il suo proprio io) e pressati dalla necessità di un riconoscimento sociale, di una precisa identità che ci salvi dal nulla e che ci permetta di non dubitare più di noi stessi.

Anche nell’opera scelta per questa mostra, il video “Conversazione” del 2010, foto digitale su forex, Giuliano Galletta mette subito in discussione alcune consuetudini sociali. La performance esibita in questo video ci mostra il confronto tra due donne sedute attorno ad un tavolo sopra il quale sono concentrate delle arance. Gli spigoli smussati del tavolo ci suggeriscono la possibilità di un dialogo ma scopriamo che la “conversazione” si svolgerà in assoluto silenzio. Il passaggio generazionale, simboleggiato dalle arance accuramente sbucciate dalla giovane donna per porgerle alla donna matura, custode di tradizioni familiari, viene rifiutato e capovolto. La figlia nega alla madre il consenso a perpetuare oramai obsolete usanze e spogliatosi di ogni veste sociale imposta si appresta a passare questa nuova consapevolezza alla genitrice, chiusa nel suo passato come nell’abito nero che la cela quasi completamente ma che tuttavia, malgrado il rancore, accetta di prendere in considerazione questa possibilità di cambiamento.

Alessio Delfino, artista nato a Savona nel 1976, è un fotografo che attraverso le sue immagini ci conduce nel mondo dell’archetipo.

L’artista presenta in mostra due lavori della serie “Tarocchi”, celebrando un tributo alla donna ed al suo potere sull’uomo. L’origine dei Tarocchi rimane incerta, solo nel tardo Medioevo sono stati ritrovati documenti in cui si fa riferimento a queste carte da gioco, considerate da molti veicolo esoterico di conoscenza. Anche illustri studiosi contemporanei furono interessati a questa antica forma di divinazione, interpretandola anche in chiave psicoanalitica.  Carl Gustav Jung, partendo dall’assunto che le leggi di natura sono invariabili solo all’interno di una causalità controllata, concludeva che tutti i fattori che agiscono al di fuori sono soggetti all’imprevedibilità. Ogni istante ed ogni azione sono vincolati dal caso, esiste solo un metodo che permette di collegare gli accadimenti tra loro, la sincronicità. I Tarocchi svelano dunque l’esistente tenendo conto dei fattori presenti nel preciso momento dell’interrogazione ed il responso che viene dato è altresì influenzato dal profilo psicologico dell’io interrogante.

Delfino descrive le figure allegoriche facendo riferimento ai Trionfi marsigliesi, di cui fanno parte tre Virtù cardinali – la Giustizia, la Forza, la Temperanza, qualità attribuite al femminile con cui apre un dialogo. Le modelle si prestano al gioco facendosi icone in una rappresentazione statuaria, sontuosa e barocca, dell’inappellabile verità rivelata. La Giustizia viene rappresentata con la bilancia e la spada, simboli di valutazione e di castigo, a mostrare come l’uomo non possa sottrarsi al giudizio del destino.

Il Sole illumina la ragione e porta alla luce ciò che è nascosto, dona chiarezza ai contorni delle cose, eliminando le parti oscure del nostro essere ed aprendoci ad una nuova coscienza.