MACRO-ROMA

MACRO Museo d’Arte Contemporanea di Roma

Roma – Via Nizza, 138 – via Reggio Emilia, 54

www.museomacro.it

Ingresso libero

Orari apertura : martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e domenica dalle ore 10 alle ore 20

Sabato dalle ore 10 alle ore 22 (Lunedì chiuso)

ITACA, Medhat Shafik, Settembre 2019

I CORRIDOI DEL TEMPO, Michelangelo Penso, Luglio 2019

CUCIRSI LA VITA ADDOSSO, Elena Monzo, Maggio 2019

CUCIRSI LA VITA ADDOSSO

#Laboratorio di Elena Monzo
CUCIRSI LA VITA ADDOSSO
a cura di Stefania Giazzi

Gli stereotipi in cui la donna è stata re-legata nella storia sono stampati su tessuti, reinterpretati, destrutturati. L’azione dell’artista è quella di riappropriarsi del tempo attraverso il recupero. Gli abiti sono il mezzo per depositare fantasmi femminili, mentre la visione di Occidente e Oriente sono mescolati in un caos in cui nessuna identità è più garantita.

14-19 maggio 2019 | Laboratorio MACRO ASILO

Elena Monzo | Cucirsi la vita addosso

#Laboratorio di Elena Monzo CUCIRSI LA VITA ADDOSSOa cura di Stefania GiazziGli stereotipi in cui la donna è stata re-legata nella storia sono stampati su tessuti, reinterpretati, destrutturati. L'azione dell'artista è quella di riappropriarsi del tempo attraverso il recupero. Gli abiti sono il mezzo per depositare fantasmi femminili, mentre la visione di Occidente e Oriente sono mescolati in un caos in cui nessuna identità è più garantita.14-19 maggio 2019 | Laboratorio MACRO ASILO Video © Monkeys VideoLab

Pubblicato da MACRO – Museo d'Arte Contemporanea Roma su Giovedì 23 maggio 2019

Video © Monkeys VideoLab


Il progetto di Elena Monzo per il Macro prende spunto dalla sua visione del femminile contemporaneo. Monzo interpreta il vissuto delle donne con il loro bagaglio di retaggi culturali, la ricerca della perfezione sempre in bilico tra l’immaginazione e la realtà che contrappone una modernità che inventa sempre nuovi modelli cui conformarsi. Le sue carte bianche, a volte preziose come le carte di riso, sono mezzo di trasformazione. Dalla purezza originaria del washi emergono ritratti di donne ambigue, esibizioniste, ansiose di adeguarsi all’estetica imperante, colte talvolta di sorpresa nell’intimità in collant e rossetti sbavati.

Le donne di Elena Monzo

Concluso lo show della mondanità le donne di Elena Monzo elaborano lo sfasamento tra l’essere e l’apparire e si purificano in segreto dai veleni mentali con rituali da cui riemerge il loro lato istintivo ed animale, il luogo più segreto in cui ricevono le linee guida della loro vita. La souplesse del femminile, la capacità di stare dentro ai ruoli assegnati con una propria segreta resistenza viene raffigurata da trapeziste inguainate in corpetti e lustrini, sospese nel vuoto o impegnate in impossibili contorsioni su tacchi vertiginosi di richiamo feticista.
Figure femminili tra lo splendore del mostrare e la fatica dell’essere, che appaiono ammiccanti e perdute, ad ondate assalite dai flashback che si sedimentano su un presente cosparso di dubbi.  Gli insetti che si nascondono tra le pieghe dei costumi di scena. Stremate, talora si abbandonano tra le braccia di un femminile che le sostiene.

Attraverso i cliché l’artista gioca sul doppio binario dei significati.

Stampandoli sui tessuti torna a reinterpretare gli stereotipi dell’immaginario in cui la donna è stata re-legata. Deride e destruttura i luoghi comuni ed attraverso l’iconografia trasforma i vecchi indumenti, facendo emergere diverse sfaccettature della personalità.

L’eccesso e la denuncia del consumismo compulsivo sono la cifra che contraddistingue l’opera di Elena Monzo. L’azione dell’artista è di riappropriarsi del tempo attraverso il recupero. Gli abiti sono il mezzo per depositare i suoi fantasmi femminili, la visione di Occidente ed Oriente mescolati in un incrocio caotico in cui nessuna identità è più garantita.

Nel laboratorio il tempo verrà scandito dalla riproduzione dei cliché, una sorta di tatuaggio impresso sulla verità del corpo, sull’identità che si vuole mostrare. In questo modo l’abito indossato, usato, obsoleto, torna a nuova vita. E’ come nuova linfa, desiderio di cambiamento senza negare il passato. Ed è anche ribellione ai dettami della moda, fluttuante in un tempo astratto che non è mai il presente, avulsa da qualsiasi contesto e soggetta solamente al codice del desiderio. Le sue muse sono presenze irraggiungibili, proiettate in un altrove a noi invisibile, che esauriscono il nostro sogno nel tempo della sfilata. Appena risvegliati da quel sogno artificiale è già tutto finito: a noi restano i gusci vuoti di meravigliosi abiti e l’illusione di possederne l’intrinseca personalità.

Il presente Elena Monzo lo inventa ricucendo le contraddizioni del nostro tempo, lacerato tra la nostalgia di un femminile arcaico e la necessità di un femminile integrato in ogni ambito.
Sulle sue carte genera mondi matriarcali, dove donne guidate dall’istinto e dall’intuito sono profondamente consce del sacro del femminile, dell’ancestrale forza che presiede alla creazione ed al generare. Al contempo si ribellano ai falsi miti di un progresso orientato al soddisfacimento di bisogni superflui con un sberleffo.

Stefania Giazzi

 

INCONTEMPORANEA Agostino Arrivabene Bertozzi&Casoni Angelo Filomeno

2  / 30 luglio 2017

a cura di Virginia Monteverde e Stefania Giazzi

La mostra si propone di esplorare il tema della caducità e della vulnerabilità della materia. Gli artisti esprimono mediante differenti tecniche la sottile malinconia per la corruzione che il tempo inflligge alle forme della bellezza. Manierismo, ironia e struggente virtuosimo pervadono le opere in mostra in una moderna rappresentazione della vanitas.

Agostino Arrivabene

Si muove in un universo visionario, popolato da ossessioni cosmiche ctonie. La sua dettagliata pittura rende omaggio ai maestri del passato, quali Leonardo e Durer, e scava dietro alle superfici levigate di stratificate bellezze per scoprirne i segni del deterioramento. Nello svelamento della corrosione dell’originaria purezza, Arrivabene ci mostra che una volta concluso il ciclo di dissoluzione ogni cosa potrà ritornare all’origine, alla terra. Questa genererà quindi un nuovo ciclo di vita, seppur di diversa natura.

Bertozzi&Casoni.

I due artisti creano “sculture dipinte”, come essi stessi definiscono la loro ricerca, assemblaggi di ceramiche con raffinata tecnica. Adoperano la ricercatezza del dettaglio non screvo di un ironico richiamo alle icone religiose e intellettuali del nostro tempo cadute talvolta in disuso. Il richiamo all’accumulo di oggetti e detriti di ogni genere, un tempo oggetti di desiderio, ora obsoleti e destituiti, segnano l’irreversibilità del destino di ogni cosa e la vacuità della nostra era del consumismo.

Angelo Filomeno

Usa la preziosità di tessuti in shantung di seta per creare ricami irriverenti. Nelle sue opere l’artista recupera dunque un’antica tradizione manuale per raccontare le sue visioni del nostro universo popolato da noi umani, sospesi tra la dimensione del cielo e la terra, tra splendore e decadenza, in caduta libera nel vuoto dell’ignoto. Il suo immaginario attinge alle culture primitive, ai riti sciamanici che guariscono i mali della comunità, i cui talismani hanno il potere di proteggere dalle forze oscure

Testi di Stefania Giazzi

SEGRETE

SEGRETE – Tracce di Memoria

Pubblico
Presentazione
Stefania Giazzi
Mauro Panichella
Mats Bergquist
Tiziana Cera Rosco
Alessandro Lupi
Video su Etti Hillesum
Paolo Cavinato
Carla Crosio

Art Commission Associazione di Promozione Sociale della Cultura in collaborazione con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura e ILSREC e con il patrocinio del Comune di Genova e della Regione Liguria.

COMUNICATO:

Artisti alleati in memoria della Shoah
IX Edizione
ideata e curata da Virginia Monteverde
con la collaborazione di Stefania Giazzi
22 Gennaio – 5 Febbraio 2017
Inaugurazione: sabato 21 gennaio ore 18
Antiche carceri della Torre Grimaldina di Palazzo Ducale piazza Matteotti, Genova

Sabato 21 gennaio alle 18.00 nelle Antiche Carceri della Torre Grimaldina di Palazzo Ducale a Genova, si inaugura la IX edizione di “SEGRETE – Tracce di Memoria” Alleanza di artisti in memoria della Shoah. La rassegna d’arte, realizzata grazie alla collaborazione di Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, vedrà come tutti gli anni la creazione, all’interno delle suggestive celle della Torre Grimaldina, di un percorso artistico di forte impatto emozionale ed evocativo.  Attraverso installazioni site specific, gli artisti offrono letture diverse e riflessioni sulla Memoria. Come per le precedenti edizioni, la rassegna può contare sulla partecipazione di un gruppo di artisti contemporanei di rilievo internazionale:

Mats Bergquist, Gregorio Botta, Paolo Cavinato, Tiziana Cera Rosco, Carla Crosio Alessandro Lupi, Mauro Panichella.

La nona edizione di Segrete

La rassegna dedicata alla commemorazione della Shoah, che sin dalla prima edizione ha identificato le carceri di Palazzo Ducale come luogo deputato per ricordare il dramma dell’eccidio degli ebrei, quest’anno si è aperta con un video dedicato ad Etty Hillesum.
Nel video la ricostruzione della storia dell’intellettuale ebrea che volontariamente si è sottratta alla possibilità di salvarsi per seguire il destino che ha dissolto in modo sistematico e con razionale ferocia la vita di milioni di ebrei. Rievocata in un drammatico bianco e nero e tratteggiata da alcuni momenti salienti della sua esistenza, mette in evidenza l’impossibilità di questa giovane donna di rassegnarsi alla logica dell’odio contrapponendovi la teorizzazione del sacrificio. Etty Hillesum vuole essere “il cuore pensante della baracca”. La mistica razionalità del suo pensiero la guiderà con lucidità e senza vacillazioni fino alla fine del suo percorso di vita che si conclude con il viaggio in treno che la porterà ad Auschwitz.
La mostra è stata inaugurata partendo da questo video che ci mette di fronte alle nostre responsabilità verso il prossimo. E’ proseguita con le installazioni dei sette artisti invitati che hanno sviluppato il tema della memoria con estrema sensibilità ed empatia, aprendo alla strada della riflessione per poter comprendere, e del perdono come possibilità per riconciliarsi con il passato.

Mats Bergquist

Ha creato uno spazio di preghiera con i suoi daruma distribuiti su un letto di cenere. Lo spazio diviene così luogo di silenzio e di possibilità di cambiamento.
Attraverso la meditazione vi è la conversione del pensiero, che diventa puro e svuotato di desideri. Il daruma è l’icona del desiderio. L’atto della combustione lo purifica, ogni forma viene mondata dall’impurità della passione. Il tacere delle passioni e dei vortici mentali permette di raggiungere il perfetto silenzio della mente e può avvicinarci alla conoscenza del sé, della nostra essenza depurata dagli eccessi dell’ego in cui ci identifichiamo. Ritroviamo in questa opera il pensiero di Bergquist, la sua formazione: la trasformazione che è scaturita dal passaggio dal colore al monocromo si traspone in queste forme, nel doppio binario di creazione e dissoluzione del pensiero attraverso l’eliminazione del superfluo. Verso la ricerca dell’essenziale.

Gregorio Botta

Ricostruisce lo spazio della cella con gli oggeti più basilari: un letto ed un tavolo in piombo. Eppure è una cella affollata. Una volta avvicinatisi al letto di ferro, coperto da un lenzuolo di lino cerato e da un cuscino, rivivono i fantasmi dei prigionieri, si percepiscono nell’aria suoni e voci, ricordi di istanti vissuti richiamati ossessivamente alla mente. Nel tavolo incide in lettere scarlatte la parola cielo, sinonimo di luce e libertà, silenziosa invocazione nell’oscurità della prigione in cui tutte le parole del rimpianto scorrono nell’inchiostro. La consuetudine dell’artista di imprimere i materiali, scavati e manipolati per fare riaffiorare parole che marcano, si ripropone in questa opera in cui le pareti della stanza sono il contenitore di sentimenti ancora legati ciò che è irrimediabilmente passato, cui ogni cosa è intrisa, resa viva dal desiderio di sfuggire ad un presente inaccettabile in cui si è dolorosamente immersi.

Paolo Cavinato

Nella cella in cui trovò la morte in incerte circostanze Iacopo Ruffini, patriota genovese del periodo mazziniano, ha posto un’installazione in cui viene ricostruito il luogo sospeso di una camera il cui unico elemento di certezza è lo scandire di un goccia che cade a ritmi regolari. Tutto è bianco ed assorto in un allucinato silenzio; il letto al centro, unico oggetto come luogo di sconfinamento nel sogno, è veicolo per liberarsi della memoria di volti e luoghi assiepati negli angoli della mente e della stanza a colmare le ore di prigionia. L’artista ha imposto all’installazione una congrua sovrapposizione geometrica di vasche trasparenti che amplificano la luce ed il senso di solitudine che ad ogni anello d’acqua si espande, tentativo di contenimento dell’angoscia mediante la ritmicità come elemento di controllo.
Un tempo soggettivo ed articolato, luogo di rifugio e di ordine, di riparo dalla paura del non conosciuto e del vuoto.

Tiziana Cera Rosco

Nella cella ha deposto lenzuoli bianchi, sudari testimoni del supplizio.
L’artista tuttavia offre la possibilità del riscatto nel perdono.
Mette in scena la parabola del Vangelo secondo Matteo in cui viene evocata la domanda che Pietro pone a Gesù, quante volte perdonare il fratello che ha peccato nei suoi confronti; la risposta di Gesù è che dovrà perdonare fino a settanta volte sette. E quattrocentonovanta sono i calchi in gesso di corpi disposti a terra, le cui immagini nel dettaglio scorrono sui muri corrosi della cella riproponendo il martirio con il quale, attraversata la soglia massima del dolore, si potrà invertire la spirale dell’odio rigenerandolo con il perdono. La performance dell’artista scandisce la drammaticità del suono che impregna l’aria satura di tensione: Cera Rosco assiste alla tragedia e si copre il volto per non dovere più vedere tanto orrore, la lacerazione della personalità, il tentativo di cancellare ogni segno dell’io, di ogni fede.
Quanti corpi, oggi, quanti volti di cui non conosciamo storia né nome, sono sradicati, dispersi, respinti, umiliati?

Carla Crosio

Colpisce ed investe l’osservatore con una oscura massa informe che si espande dalle pareti della cella in ogni verso.
L’artista usa materiale di riciclo, ecologicamente sostenibile, per mettere in scena una situazione insostenibile, in un’azione di disturbo esterno a rappresentazione del disturbo interiore.
La massa amorfa che occupa ogni spazio in modo soffocante deborda come un pensiero irrefrenabile, una sorta di follia che non si è più in grado di contenere e rischia di rovesciarsi su ogni cosa invadendo lo spazio mentale e fisico, valicando il confine di demarcazione tra realtà ed immaginazione.
Crosio usa materiali comuni che divengono qualcosa di indefinito, inquietante una volta assunte forme e dimensioni incontrollabili, similmente alla materia dei sogni che viene prodotta dal nostro io segreto una volta sfuggiti alla logica del giorno ed alle sue regole, creando assurde associazioni e proliferazioni di pensiero che portano a tragiche derive.

Alessandro Lupi

Ci porta in una dimensione claustrofobica: usa un sofisticato espediente di illusione ottica per riprodurre ciò che appare come un corpo umano costretto in uno spazio ristrettissimo. L’essenza luminosa, creata da raggi ultravioletti che illuminano i fili di poliestere fosforescenti che ricostruiscono la figura, è proiezione di desiderio.
La struttura rigida di un baule impone rigidi confini all’espansione, sia fisica che mentale, dell’individuo. Il corpo rievocato attraverso la memoria è vincolato dai limiti stessi della mente. Prigione dentro la prigione, scatole cinesi che si incastrano una nell’altra senza soluzione incapsulano la mente in un labirinto.
L’opera di Lupi proietta nell’ombra la radicalità delle nostre illusioni, gabbie in cui noi stessi ci rinchiudiamo senza poter vedere la realtà delle cose.

Mauro Panichella

Usa la tecnologia per rappresentare una realtà sommersa, a metà strada tra la visione e la nostra percezione, che non sempre e necessariamente è simile al vero.
Nel suo video la telecamera scorre sulla superficie dell’acqua e capta le realtà appena sottostanti con l’occhio di un attento osservatore; l’artista, nella sua veste di archeologo indaga ogni scoperta per trasformarla in evoluto mezzo di comunicazione. In questo caso l’esplorazione minuziosa di ogni minuscolo animale od oggetto viene amplificata dallo strumento che indaga ogni cosa dentro il moto incessante dell’acqua. L’interesse dell’artista per il mondo animale ed i suoi simbolismi si manifesta in questo viaggio che ci accompagna in un mondo che conosciamo superficialmente ed è un mezzo per farci comprendere l’offuscata concezione che abbiamo del senso delle cose e degli accadimenti, le loro cause, che spesso non riusciamo a comprendere malgrado i segni premonitori e che quando si manifestano è oramai troppo tardi per poterli arrestare.

Il 7 settembre 1943 Etty Hillesum insieme ai suoi parenti, madre, padre e il fratello Misha, lasciò il campo di concentramento di Westerbork cantando, come dichiarò in una cartolina gettata dal treno e raccolta dai contadini del luogo. Con essa aveva lasciato il suo testamento che ci liberava dal vincolo dell’odio.

Testo di Stefania Giazzi

I siti che hanno annunciato la rassegna

http://www.palazzoducale.genova.it/segrete-tracce-di-memoria/ http://www.ilsecoloxix.it/p/multimedia/cultura_spettacoli/2017/01/27/ASTcsx4F-segrete_memoria_memo- ria.shtml#1 https://www.evensi.it/segrete-tracce-di-memoria-ix-edizione-inaugurazione-palazzo/196854301 http://www.mentelocale.it/agenda-eventi/genova/41525-concerto-memoria.htm http://www.espoarte.net/calendario-eventi/segrete-tracce-di-memoria-ix-edizione/ http://untitledmarlalombardo.blogspot.it/2017/01/segrete-tracce-di-memoria-genova.html http://www.italia-resistenza.it/in_evidenza/segrete-tracce-di-memoria-2017-2209/ http://www.artribune.com/mostre-evento-arte/segrete-tracce-di-memoria-2017/ http://www.arte.it/calendario-arte/genova/mostra-segrete-tracce-di-memoria-ix-edizione-34929 http://www.datedarte.it/events/segrete-tracce-di-memoria-ix-edizione/ http://agenzia.versolarte.it/News/2017/01/23/segrete-tracce-di-memoria/ https://www.lobodilattice.com/mostre-arte/segrete-tracce-memoria-ix-edizione http://www.exibart.com/profilo/eventiV2.asp?idelemento=165232

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INCONTEMPORANEA – Mats Bergquist, Gregorio Botta, Paolo Cavinato

19 gennaio / 23 febbraio 2017

a cura di Virginia Monteverde e Stefania Giazzi

Mats Bergquist

Nel buio di un pozzo ravviso il mio volto Hozaki Hosai

Mats Bergquist è nato a Stoccolma, dove vive attualmente. E’ vissuto in Russia ed in Polonia, negli ultimi anni in Italia.

La sua opera è ispirata dalla filosofia zen. Mats Bergquist agisce per sottrazione di immagini e di colore. La sua ricerca, ininterrotta meditazione su forma e sostanza, tende all’essenziale. Il colore viene gradualmente eliminato dalle sue opere sino a giungere all’opacità del bianco e del nero, supreme catarsi dell’assoluto. Le figure iconiche, i Daruma, realizzate in ceramica raku, che l’artista rappresenta come forma pura di un’espressione di desiderio si rovesciano nella rappresentazione degli Ayasma, ovali di pigmento nero su fondo bianco, definite dall’artista fonti di purezza. I Daruma sono ispirati alla figura del fondatore dello Zen, Bodhidharma. Nella tradizione giapponese le bambole votive sono dipinte e la raffigurazione di Bodhidharma è propiziatoria per ottenere la realizzazione di un desiderio, la speranza e la perseveranza sono espresse dal basso centro di gravità che ristabilisce sempre il centro del Daruma.

Nell’opera di Bergquist le icone sono immobili, silenti, preposte alla meditazione ed alla preghiera. Ogni opera votiva è un inno al sacro e la lavorazione della ceramica con la tecnica raku, ad altissima temperatura, crea i presupposti per la purificazione.

Negli Ayasma si procede per osmosi, l’ovale trasferito sul foglio non è più l’icona ma il mezzo per indagare l’inconscio. Lasciandosi trasportare nella vertigine dell’inconosciuto, si scende in luoghi profondi del proprio essere ove attingere da sorgenti pure le acque depurate dagli egoismi per giungere all’osservazione di sé, all’egoità, e risalire alla luce della superficie purificati. Nel nero scavato dell’Ayasma affiora l’immagine del sé, a lungo ricercata attraverso la meditazione, riflessa nello speccio ripulito della coscienza.

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Gregorio Botta

 

Gregorio Botta è nato a Napoli vive e lavora a Roma.

I materiali usati da Gregorio Botta per le sue sculture, piombo e cera, contengono la memoria delle parole e dei versi del poeta, l’archetipo delle idee e dell’artista. L’uso di questi materiali malleabili rileva la transitorietà e la caducità delle cose e la struggente bellezza dell’alto pensiero che verrà cancellato col passare del tempo. Botta tuttavia accetta l’incontrovertibile regola, apprende dallo stato delle cose la scansione del tempo e l’impermanenza di ogni cosa.

Tutto scorre, e Gregorio Botta fa scorrere sulla cera, materiale plasmabile, soggetto al dissolvimento, le parole del poeta pronunciate nel vortice dell’inquietudine e del disordine della vita. L’acqua cancella ogni traccia di questi vortici della mente, ne rimane solo il segno inscritto nel segmento dell’arte, nel tempo eterno e sospeso dell’afflato artistico. Il piombo custodisce i versi del poeta, li protegge dalla corrosione del tempo e dalla dimenticanza.

Botta dà segno e forma alla vulnerabilità delle cose e dei sentimenti. Nei suoi fragili lavori realizzati con i vetri, Botta imprigiona attimi che riafforano da un ricordo, da un sospensione della parola, collegamento di idee o sensazioni che emergono dalla coscienza. E’ la meditazione vipassana dell’artista.

Riuscendo a creare il vuoto attorno alle immagini che affollano il nostro vissuto, affiorerà e diventerà più nitido ciò che è più essenziale. Sfrondate da ogni orpello, appaiono gradualmente immagini relegate nell’inconscio, catalogate da frettolosi archivi. Nella forma che lentamente emerge da un’attenta osservazione vi è l’urgenza di ritrovare il vero, di uscire dai confini dell’io che percepisce in modo parziale ed illusorio; vi è la necessità di vedere finalmente le cose come sono.

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Paolo Cavinato

Paolo Cavinato è nato a Fossato, in provincia di Mantova, dove tuttora vive e lavora alternando la residenza a Copenaghen.

Le geometrie esistenziali delle opere di Paolo Cavinato prendono spunto da riferimenti prospettici rinascimentali. L’attenta analisi delle pecularietà dello spazio, lo sfruttamento della profondità ne fondano il rigore strutturale che permette all’artista di comporre ambienti dove quasi mai è prevista la presenza dell’uomo. I minuziosi manufatti vestono di meditazione ogni oggetto e riproduzione creati dall’artista.

I “Corridors”, composti da telai sovrapposti su base chiara, all’occhio dell’osservatore appaiono come corridoi infiniti in cui si aprono griglie che riproducono come in uno specchio lo stesso volume. La luce che pervade l’ambiente attraversa lo spazio e conduce lo spettatore dentro l’opera. Lo sguardo viene assorbito verso il centro, un vuoto non definito, non delimitato. Ci suggerisce un altrove cui non abbiamo accesso in ordinarie condizioni sensitive. Anche in “Libration” una sequenza di stanze dà accesso a vani sospesi, costruiti per determinare un ambiente che diventa, attraverso il nostro sguardo, sfuggente e dilatato.

E’ dunque una dimensione altra quella percepita dell’artista, una tensione verso un punto fuori dal nostro cono visivo che riporta alla consapevolezza della non-conoscenza, del senso della finitezza dell’opera che traccia coordinate che conducono ad una realtà che ci trascende.

Nell’opera “Destino”, l’intreccio dei telai cela una spazialità sospesa su di uno sfondo scuro. Le linee che si intersecano costituiscono la progettualità del finito malgrado tutto sia già inscritto nelle leggi dell’universo, precise costruzioni relazionali che non sfuggono al punto di attrazione da cui verranno assorbite, incorporate nella materia cosmica, dall’energia dell’infinito.

Le opere di Paolo Cavinato ci avvicinano ad una complessa prospettiva di ricerca del sacro nella costruzione architettonica delle nostre vite.

Testi di Stefania Giazzi

I CORPI DEL MONDO

Un’opera di Luisella Carretta a Metropoliz

La dimensione del viaggio attraversa la vita e l’opera di Luisella Carretta da sempre. L’opera che viene installata negli ambienti del MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove in Metropoliz, città meticcia insediatasi nella periferia romana, riassume e concretizza uno dei mirabolanti progetti attuati dall’artista: catturare nel segno e nel colore le istanze del tempo e del luogo. In questi ambienti ancora memori del passato (il luogo ora abitato e che ospita opere d’arte era l’ex salumificio Fiorucci) deposita mediante la garza, materiale privilegiato per la sua leggerezza ed osmosi, le reminescenze dei luoghi e degli elementi attraversati, i deserti bianchi di Gaspè, i ghiacci del Quebec, e le sabbie e terre di Vulcano e dell’Etna.

Nella creazione dell’opera ci restituisce il senso dell’effimero, della caducità, della drammatica polarità delle cose. Proprio per questo Luisella Carretta ha visitato instancabile il mondo: ha voluto vedere, conoscere le genti e le loro terre, udirne i suoni ed i silenzi.

Il suo percorso è singolare, una ininterrotta ricerca nel mondo e nella natura di cui ha saputo carpire i segreti e che hanno ispirato i suoi scritti, i disegni e le performances.
Il desiderio dell’artista ha fatto sì che potesse attraversare continenti ed oceani per giungere a quei luoghi a lungo sognati ed agognati, vissuti mediante una misteriosa connessione dei sensi prima e raggiunti poi con il corpo. Il corpo che ha evocato con rituali i fasti e gli aspetti più nascosti della Natura, catturati mediante l’ipnotica osservazione per ore giorni e settimane di ogni minuscola manifestazione che ha condotto lo studio di Luisella Carretta in ambiti scientifici senza che lo ricercasse, giungendo ad una lunga collaborazione con l’etologo Giorgio Celli che è sfociata nella partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1986.

Il cammino critico controcorrente dell’artista inizia nel 1970: nel momento in cui si sperimentano nuovi modi di vivere i rapporti nella società ed in cui si afferma l’espansione dell’economia industriale, essa comincia a percepire lo snaturamento dell’uomo intuendone il progressivo svuotamento spirituale a favore di una forzata accelerazione dei ritmi ed un asservimento alla logica del progresso senza limiti in nome della modernità.
Comincia a coltivare in sé una nostalgia delle origini, della purezza della percezione che permette all’uomo di accostarsi al divino inteso come creazione primigenia.
La scelta dell’artista è di isolarsi per concentrarsi sui ritmi della Natura, per coglierne ogni minima vibrazione e cambiamento nelle fasi temporali.
Dall’osservazione della struttura comunitaria di insetti e dal volo degli uccelli può cogliere l’instancabile opera di tessitura quotidiana di trame ed orditi che compongono l’ordine universale, ciascuno con la sua minuta necessaria parte. Trascrive i tracciati in disegni in progressione di movimento, metodo che ripropone strutturando tracciati umani nella città che confermano l’ineluttabile perdita dell’interazione tra umani e l’incapacità oramai di cogliere i segni ed il linguaggio della Natura.
Comprende che è necessario ricomporre l’equilibrio del mondo.
Andando alla ricerca di luoghi impervi, quasi inaccessibili, Luisella Carretta celebra in solitudine il suo tributo alla Natura, attinge alle sue fonti, si veste delle sue garze impregnate degli umori e delle usure dei climi e si lascia trasportare alla sua ricerca dell’Altrove.

Il senso di quest’opera a Metropoliz riassume in sé le peculiari caratteristiche del luogo, il nomadismo, il senso di provvisorietà, la ricerca della felicità in ogni luogo della terra, seppur nell’aleatorio tempo che ci è destinato.

Testo di Stefania Giazzi

 

Su Luisella Carretta visita la pagina

https://www.stefaniagiazzi.it/luisella-carretta/

 

JE T’ AIME

L’arte contro la violenza sulle donne

a cura di Virginia Monteverde

critica di Stefania Giazzi

SPAZIO46 di PALAZZO DUCALE – GENOVA

7/29 MAGGIO 2016

Il tema della mostra scelto dalla curatrice Virginia Monteverde affronta immediatamente una realtà sottaciuta per molto tempo, che necessita di una presa di coscienza e di un ripensamento della collettività in termini di prevenzione e di protezione delle vittime. Il percorso scelto dalla curatrice per riflettere su questo argomento è singolare: invita sette artisti di sesso maschile ad esprimere con il loro sguardo un punto di vista su questo aspetto oscuro della società.

Gli artisti scelti dalla Monteverde utilizzano varie tecniche espressive, attraversano diagonalmente molti linguaggi aprendo molteplici finestre di dialogo con lo spettatore. Allo stesso modo la scelta degli artisti apre un confronto di approccio al problema sul modo in cui si manifesta la violenza sulle donne. Nel suo libro “Donne che corrono coi lupi” Clarissa Pinkola Estés, psicanalista junghiana, afferma:

La mia generazione, quella del dopoguerra, è cresciuta in un’epoca in cui la donna era trattata come una bambina e come una proprietà. Era tenuta come un giardino incolto..ma per fortuna qualche seme selvaggio arrivava sempre, portato dal vento. Sebbene quel che le donne scrivevano non fosse autorizzato, comunque continuarono a diffonderlo. Sebbene quel che dipingevano non ottenesse alcun riconoscimento, comunque nutriva l’anima.

Le donne dovevano implorare per ottenere gli strumenti e gli spazi necessari alle loro arti, e, se nulla era concesso, trovavano il loro spazio negli alberi, nelle caverne, nei boschi, e nei gabinetti.

La danza era appena tollerata, forse, e perciò danzavano nella foresta, là dove nessuno poteva vederle, o nel seminterrato, o mentre andavano a buttare la spazzatura. L’ornamento della persona metteva in sospetto. Un corpo felice o un vestito accrescevano il pericolo di subire un torto o di venire aggredite sessualmente. Perfino gli abiti che portavano non potevano essere definirsi i loro”.

Molte artiste contemporanee hanno espresso la sofferenza subita: da Frida Khalo, il cui corpo martoriato da un gravissimo incidente e da molteplici operazioni venne da lei ritratto in una sorta di dimensione onirica, lacerato ed umiliato dai numerosi tradimenti di Diego Rivera, noto artista messicano di murales a sfondo sociale, cui fu legata da un legame ossessivo.

Artiste come Gina Pane hanno agito il corpo come mezzo di comunicazione della sofferenza, inscenando, come nella performance “ Azione sentimentale” del 1973, le lacerazioni della presa di coscienza dell’essere donna, del proprio corpo, in una società in cui ancora oggi viene richiesto il sacrificio delle donne.

Marina Abramovich nelle sue performance con il compagno Ulay ha messo in scena l’impossibilità di dialogo tra uomo e donna, lo scontro che accende la violenza e la distanza che porta alla fine del rapporto.

Altre artiste hanno palesemente contestato i pesanti condizionamenti culturali sulle donne agendo su di sé attraverso la negazione della propria identità rinnegata, come l’artista Orlan i cui tratti somatici sono stati più volte modificati da operazioni che la trasfigurano.

La stessa operazione comunicativa viene operata da Cindy Sherman che, seppur negando la volontà di aderire ad una protesta di tipo femminista, nelle sue opere propone veri e propri set d’impostazione cinematografica in cui vengono accuratamente ricostruiti universi femminili intrappolati nelle convenzioni sentimentali e culturali.

Regina Josè Galindo, giovane artista guatemalteca, ha denunciato gli abusi sui fragili corpi delle donne e sui più deboli, partendo dal suo stesso corpo usato come contenitore di torture ed umiliazioni, toccando gli estremi della rappresentazione della violenza sulle donne.

I sette artisti che partecipano a questo progetto hanno restituito dignità alla donna ed al suo corpo, hanno colto le sfaccettature di un faticoso vissuto che continuamente ricerca il cambiamento, cercando di sfuggire al vischioso retaggio di certa cultura retrograda, unendosi in un mantra collettivo di pensiero.

Ulrich Elsener, nato a Biel nel 1943, al confine tra la Svizzera francesce e tedesca, nella sua ricerca parte inizialmente da una mappatura dell’esistente, territorio fisico ed al contempo immaginario del femminile. Nella sua opera viene celebrata la sensualità del corpo nudo, possente, disteso sul mondo. Esso è forza generatrice, depositaria e conservatrice del genere umano. A questo potere, riconosciuto e temuto, si contrappone l’abuso dei corpi femminili, la loro mercificazione per umiliarlo, imponendo il dominio su di esso. Questo corpo riverso sui continenti descrive la distorta sessualità imposta alla donna, costretta a rinunciare alla sacralità del suo tempio, all’indiscusso potenziale di vita per sottomettersi al desiderio maschile.  Il tratto di Elsener, ad inchiostro ed acrilico, che disegna la geografia del corpo sulla geografia del mondo, sovraimprime origine della Terra ed origine del mondo umano; fonde potere istintuale, magma e spiritualità, procede verso la purificazione del corpo e del mondo attraverso le vie degli oceani.

Michelangelo Galliani, classe 1970, originario di Montecchio dell’Emilia, è da sempre dedito alla scultura. Già giovanissimo ha iniziato a travasare il suo sapere nella creazione. Il marmo ed il piombo sono i complementari della sua ricerca. Egli pazientemente corrompe la staticità del materiale plasmandolo con perizia nell’attesa che dal nucleo della materia affiori la forma, elimina tutto ciò che è superfluo giungendo all’essenziale.  La metamoforsi del marmo si compie elevandosi in tutta la sua purezza, facendo emergere corpi e volti estatici, memori della loro condizione di deità, assurti a simbolo della perduta bellezza del mondo. Tuttavia il desiderio dell’artista dall’estasi della perfezione si è esteso alla contaminazione dei materiali, sperimentando assieme alla durezza del marmo inciso la duttilità del piombo, dando origine a sculture che indagano la possibilità di interazione tra materiali, creando nuove simmetrie visive.  Nell’opera presentata in mostra, “Col tempo”, 2016, realizzata in piombo e cera, possiamo cogliere il progetto ultimo dell’artista.

I materiali usati già ne prefigurano la trasformazione: con una forzata accelerazione della disintegrazione della materia, Galliani pone all’interno del cuscino di piombo una resistenza.  Essa andrà a liquefare la preziosa reliquia su di esso appoggiata, una delicata testa di cera. Da sempre affascinato dalla bellezza, ora ne rappresentà la caducità, ne considera la fragilità e l’inevitabile estinguimento. Allo splendore iniziale si sostituisce lentamente il deterioramento, i tratti diventano incerti sino a scomparire, la forma si dissolve, torna all’informe. Ci si dimentica della bellezza, tutto ciò che vi era prima è cancellato. Rimane solo il silenzio, dopo.

Visita https://www.stefaniagiazzi.it/michelangelo-galliani/

Gianluca Groppi, nato a Piacenza nel 1970, vive e lavora a Genova.

La sua fotografia, per cui solitamente predilige l’uso del bianco e nero, nasce dalla necessità di esprimere stati d’animo ed angosce, di smascherare le ipocrisie celate da consuetudini di comodo; le sue opere tuttavia, anche affrontando un certo malessere, non sono scevre di una certa ironia. L’immagine che ne scaturisce è frutto di un percorso mentale, di meticolosa preparazione del dettaglio che restituisce il clima interiore del soggetto rappresentato. I lavori scelti per questa mostra svelano il pensiero dell’artista in rapporto ad una società che tenta di schiacciare l’identità del singolo, appiattendolo in una omologazione che ne cancella le singolarità, incasellate in schemi pre-definiti.

Nella serie “Denied”, una donna vestita di bianco su di uno sfondo bianco, quasi (con)fusa nel vuoto del bianco e dell’indistinto, indossa provocatoriamente una maschera e vi imprime a lettere scarlatte l’aggettivo “denied”, negato, compiendo un’azione di denuncia delle prevaricazioni sociali. In “A forest”, fine art digital print, l’artista ci consegna al primo sguardo una situazione di apparente tranquillità, una donna ci osserva serena in un contesto naturale.

Non appena lo sguardo approfondisce i particolari, si comprende che il fotografo ha voluto inscenare una lapidazione, dolorosa messinscena che riflette sulla teatralità del gesto di violenza collettivo, scaturito dal giudizio su di una scelta personale non condivisa né codificata, pericoloso precedente di libertà non autorizzate, violenza cui tuttavia la donna non si sottrae.

To be continued, per le generazioni future.

Giancarlo Marcali, nato a Richterwil – Svizzera nel 1963, vive in Brianza.

L’opera dell’artista si distingue per la ricerca sui corpi, sezionati, radiografati ed esposti in pannelli di acetato od in scatole specchio. La sua è una riflessione sul dolore che mette a nudo, espone la nostra fragilità, come gesto di condivisione che ci connette agli altri. Dell’io che esce dagli usuali schemi di rappresentazione del sé per mostrare la nostra natura più intima, celata agli altri. Nell’opera che viene presentata in mostra, il dittico intitolato “La perte, la douleur, la renaissance”, grafia su cartoncino, spilli, vetro, la violenza che viene rappresentata è quella del suicidio di un figlio. Attraverso il tragico strappo operato dal figlio, la madre percorre i passaggi della dissoluzione e della ricostruzione del sé, in una ininterrotta autoanalisi. Il viso disfatto della donna è costituito da segni, domande e parole che sono state dette, che avrebbe voluto dire, sentire, decifrare.  Le lacrime sono spilli che sgorgano dalla profondità del suo dolore, che gridano la sofferenza, scavano solchi, espiano e conducono infine alla trasformazione dell’invidivuo, mondato e risvegliato ad una nuova coscienza.

Finalmente trovando la via per la rinascita di un nuovo sé.

Gianni Caruso, nato a Dekamerè, Etiopia, nel 1943 è un artista eclettico che ha sperimentato vari linguaggi dell’arte, dalla pittura alla scultura, dall’installazione al video. Per questa mostra ha usato come mezzo la fotografia: un trittico in bianco e nero che rappresenta uno spaccato della vita di due donne. La denuncia che intende fare l’artista, da sempre impegnato nel generare codici di comunicazione d’avanguardia, riguarda la condanna della società nei confronti dell’omosessualità. La scelta dell’artista è di entrare a contatto con questa intimità ritraendo le due donne in un gesto affettuoso eppure trattenuto, una delle due ripresa di spalle, negata allo sguardo dell’osservatore, significando non tanto il pudore ma invece la necessità e l’abitudine a nascondersi.

La sequenza delle fotografie ci porta all’interno del loro luogo d’affetti, essenziale, composto da un’atmosfera rarefatta, di superfici levigate e di pochi oggetti che rimandano alla natura, alberi e girasoli, mettendo in risalto il legame del femminile con la creazione; la figura ritratta mentre dorme, nella sua naturale sensualità, è immersa nel bianco delle lenzuola di lino e nella luce che penetra dalla finestra a dirci che vi è purezza nel suo essere. L’artista invita ad andare oltre l’immaginario di trasgressione legato all’omosessualità mostrandoci un normale vissuto quotidiano messo in pericolo nella sua integrità dal giudizio di una società intrisa di stereotipi.

Giuliano Galletta nasce a Saronno nel 1955.

Arguto giornalista, lucido intellettuale che osserva e si osserva, è un artista che è arduo classificare.

Sperimentatore e dissacrante spettatore del sociale, critica il consumismo di massa inducendo a riflettere sul bagaglio culturale che noi tutti crediamo di avere acquisito autonomamente, senza essere consapevoli di ogni bisogno che dal sistema capitalistico ci è stato indotto, sommersi da un mare di oggetti inutili (da cui la metafora dell’Almanacco, che dovrebbe raccontare l’autore ed il suo vissuto che scopre – come un cassetto – essere colmo di oggetti, ricordi, desideri che l’autore non riconosce designino il suo proprio io) e pressati dalla necessità di un riconoscimento sociale, di una precisa identità che ci salvi dal nulla e che ci permetta di non dubitare più di noi stessi.

Anche nell’opera scelta per questa mostra, il video “Conversazione” del 2010, foto digitale su forex, Giuliano Galletta mette subito in discussione alcune consuetudini sociali. La performance esibita in questo video ci mostra il confronto tra due donne sedute attorno ad un tavolo sopra il quale sono concentrate delle arance. Gli spigoli smussati del tavolo ci suggeriscono la possibilità di un dialogo ma scopriamo che la “conversazione” si svolgerà in assoluto silenzio. Il passaggio generazionale, simboleggiato dalle arance accuramente sbucciate dalla giovane donna per porgerle alla donna matura, custode di tradizioni familiari, viene rifiutato e capovolto. La figlia nega alla madre il consenso a perpetuare oramai obsolete usanze e spogliatosi di ogni veste sociale imposta si appresta a passare questa nuova consapevolezza alla genitrice, chiusa nel suo passato come nell’abito nero che la cela quasi completamente ma che tuttavia, malgrado il rancore, accetta di prendere in considerazione questa possibilità di cambiamento.

Alessio Delfino, artista nato a Savona nel 1976, è un fotografo che attraverso le sue immagini ci conduce nel mondo dell’archetipo.

L’artista presenta in mostra due lavori della serie “Tarocchi”, celebrando un tributo alla donna ed al suo potere sull’uomo. L’origine dei Tarocchi rimane incerta, solo nel tardo Medioevo sono stati ritrovati documenti in cui si fa riferimento a queste carte da gioco, considerate da molti veicolo esoterico di conoscenza. Anche illustri studiosi contemporanei furono interessati a questa antica forma di divinazione, interpretandola anche in chiave psicoanalitica.  Carl Gustav Jung, partendo dall’assunto che le leggi di natura sono invariabili solo all’interno di una causalità controllata, concludeva che tutti i fattori che agiscono al di fuori sono soggetti all’imprevedibilità. Ogni istante ed ogni azione sono vincolati dal caso, esiste solo un metodo che permette di collegare gli accadimenti tra loro, la sincronicità. I Tarocchi svelano dunque l’esistente tenendo conto dei fattori presenti nel preciso momento dell’interrogazione ed il responso che viene dato è altresì influenzato dal profilo psicologico dell’io interrogante.

Delfino descrive le figure allegoriche facendo riferimento ai Trionfi marsigliesi, di cui fanno parte tre Virtù cardinali – la Giustizia, la Forza, la Temperanza, qualità attribuite al femminile con cui apre un dialogo. Le modelle si prestano al gioco facendosi icone in una rappresentazione statuaria, sontuosa e barocca, dell’inappellabile verità rivelata. La Giustizia viene rappresentata con la bilancia e la spada, simboli di valutazione e di castigo, a mostrare come l’uomo non possa sottrarsi al giudizio del destino.

Il Sole illumina la ragione e porta alla luce ciò che è nascosto, dona chiarezza ai contorni delle cose, eliminando le parti oscure del nostro essere ed aprendoci ad una nuova coscienza.

UN’ORA D’ARTE

Incontro con Luisella Carretta “Atelier Nomade”

Martedì 22 Marzo alle 18.00 presso lo Spazio46 di Palazzo Ducale di Genova, nell’ambito di “Un’ora d’arte” a cura di Virginia Monteverde, incontro con l’artista-performer Luisella Carretta “Atelier Nomade” con Stefano Bigazzi, intervento di Stefania Giazzi.

Non si è mai abbastanza forti

non si è mai abbastanza grandi

per tornare indietro

e rivedersi”

Luisella Carretta (21 giugno 1995)

Vedi anche  https://www.stefaniagiazzi.it/luisella-carretta/

TIME ZONE

MICHELA MARTELLO

MAAM_METROPOLIZ, Roma, 21 giugno 2015

L’opera di Michela Martello creata per il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, verrà inaugurata domenica 21 giugno in occasione della festa per il solstizio d’estate che verrà celebrata a Metropoliz, città meticcia della periferia di Roma, riuscito esperimento di convivenza di arte, politica e vita quotidiana. Il trittico di Michela Martello, realizzato su pannelli di lino, abbraccia simbolicamente e rafforza il progetto del fondatore del MAAM, Giorgio de Finis, di difesa del sito abitativo occupato nel 2009 e divenuto un luminoso esempio di nuova sperimentazione abitativa e spaziale, aprendo nuove possibilità sulla gestione dell’opera d’arte cui viene tolta la sacralità di cui è investita in luoghi istituiti ad hoc per amalgamarla e farla vivere in spazi comuni abitati.

Time zone, progetto curato da Stefania Giazzi, è stato presentato in anteprima a Creative Chaos a Brooklyn il 4 giugno scorso. Creative Chaos è uno spazio eterogeneo con sede a Dumbo, Brooklyn, fondato da Jenny Friedberg nel 1996. Si occupa di produzioni contemporanee di moda, grafica, architettura, interior design, arte, streetart, anteprime e scambi interattivi con le diverse comunità di NYC.

Michela Martello, di origini italiane, vive a New York dal 1998. L’artista attinge il suo immaginario da miti e simboli attraverso cui esprime la sua visione dell’universo, di cui elegge la forma manifesta ma che lascia intravedere il disegno iniziatico.

Vedi anche Time Zone- Un’opera di Michela Martello a Metropoliz