19 gennaio / 23 febbraio 2017

a cura di Virginia Monteverde e Stefania Giazzi

Mats Bergquist

Nel buio di un pozzo ravviso il mio volto Hozaki Hosai

Mats Bergquist è nato a Stoccolma, dove vive attualmente. E’ vissuto in Russia ed in Polonia, negli ultimi anni in Italia.

La sua opera è ispirata dalla filosofia zen. Mats Bergquist agisce per sottrazione di immagini e di colore. La sua ricerca, ininterrotta meditazione su forma e sostanza, tende all’essenziale. Il colore viene gradualmente eliminato dalle sue opere sino a giungere all’opacità del bianco e del nero, supreme catarsi dell’assoluto. Le figure iconiche, i Daruma, realizzate in ceramica raku, che l’artista rappresenta come forma pura di un’espressione di desiderio si rovesciano nella rappresentazione degli Ayasma, ovali di pigmento nero su fondo bianco, definite dall’artista fonti di purezza. I Daruma sono ispirati alla figura del fondatore dello Zen, Bodhidharma. Nella tradizione giapponese le bambole votive sono dipinte e la raffigurazione di Bodhidharma è propiziatoria per ottenere la realizzazione di un desiderio, la speranza e la perseveranza sono espresse dal basso centro di gravità che ristabilisce sempre il centro del Daruma.

Nell’opera di Bergquist le icone sono immobili, silenti, preposte alla meditazione ed alla preghiera. Ogni opera votiva è un inno al sacro e la lavorazione della ceramica con la tecnica raku, ad altissima temperatura, crea i presupposti per la purificazione.

Negli Ayasma si procede per osmosi, l’ovale trasferito sul foglio non è più l’icona ma il mezzo per indagare l’inconscio. Lasciandosi trasportare nella vertigine dell’inconosciuto, si scende in luoghi profondi del proprio essere ove attingere da sorgenti pure le acque depurate dagli egoismi per giungere all’osservazione di sé, all’egoità, e risalire alla luce della superficie purificati. Nel nero scavato dell’Ayasma affiora l’immagine del sé, a lungo ricercata attraverso la meditazione, riflessa nello speccio ripulito della coscienza.

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Gregorio Botta

 

Gregorio Botta è nato a Napoli vive e lavora a Roma.

I materiali usati da Gregorio Botta per le sue sculture, piombo e cera, contengono la memoria delle parole e dei versi del poeta, l’archetipo delle idee e dell’artista. L’uso di questi materiali malleabili rileva la transitorietà e la caducità delle cose e la struggente bellezza dell’alto pensiero che verrà cancellato col passare del tempo. Botta tuttavia accetta l’incontrovertibile regola, apprende dallo stato delle cose la scansione del tempo e l’impermanenza di ogni cosa.

Tutto scorre, e Gregorio Botta fa scorrere sulla cera, materiale plasmabile, soggetto al dissolvimento, le parole del poeta pronunciate nel vortice dell’inquietudine e del disordine della vita. L’acqua cancella ogni traccia di questi vortici della mente, ne rimane solo il segno inscritto nel segmento dell’arte, nel tempo eterno e sospeso dell’afflato artistico. Il piombo custodisce i versi del poeta, li protegge dalla corrosione del tempo e dalla dimenticanza.

Botta dà segno e forma alla vulnerabilità delle cose e dei sentimenti. Nei suoi fragili lavori realizzati con i vetri, Botta imprigiona attimi che riafforano da un ricordo, da un sospensione della parola, collegamento di idee o sensazioni che emergono dalla coscienza. E’ la meditazione vipassana dell’artista.

Riuscendo a creare il vuoto attorno alle immagini che affollano il nostro vissuto, affiorerà e diventerà più nitido ciò che è più essenziale. Sfrondate da ogni orpello, appaiono gradualmente immagini relegate nell’inconscio, catalogate da frettolosi archivi. Nella forma che lentamente emerge da un’attenta osservazione vi è l’urgenza di ritrovare il vero, di uscire dai confini dell’io che percepisce in modo parziale ed illusorio; vi è la necessità di vedere finalmente le cose come sono.

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Paolo Cavinato

Paolo Cavinato è nato a Fossato, in provincia di Mantova, dove tuttora vive e lavora alternando la residenza a Copenaghen.

Le geometrie esistenziali delle opere di Paolo Cavinato prendono spunto da riferimenti prospettici rinascimentali. L’attenta analisi delle pecularietà dello spazio, lo sfruttamento della profondità ne fondano il rigore strutturale che permette all’artista di comporre ambienti dove quasi mai è prevista la presenza dell’uomo. I minuziosi manufatti vestono di meditazione ogni oggetto e riproduzione creati dall’artista.

I “Corridors”, composti da telai sovrapposti su base chiara, all’occhio dell’osservatore appaiono come corridoi infiniti in cui si aprono griglie che riproducono come in uno specchio lo stesso volume. La luce che pervade l’ambiente attraversa lo spazio e conduce lo spettatore dentro l’opera. Lo sguardo viene assorbito verso il centro, un vuoto non definito, non delimitato. Ci suggerisce un altrove cui non abbiamo accesso in ordinarie condizioni sensitive. Anche in “Libration” una sequenza di stanze dà accesso a vani sospesi, costruiti per determinare un ambiente che diventa, attraverso il nostro sguardo, sfuggente e dilatato.

E’ dunque una dimensione altra quella percepita dell’artista, una tensione verso un punto fuori dal nostro cono visivo che riporta alla consapevolezza della non-conoscenza, del senso della finitezza dell’opera che traccia coordinate che conducono ad una realtà che ci trascende.

Nell’opera “Destino”, l’intreccio dei telai cela una spazialità sospesa su di uno sfondo scuro. Le linee che si intersecano costituiscono la progettualità del finito malgrado tutto sia già inscritto nelle leggi dell’universo, precise costruzioni relazionali che non sfuggono al punto di attrazione da cui verranno assorbite, incorporate nella materia cosmica, dall’energia dell’infinito.

Le opere di Paolo Cavinato ci avvicinano ad una complessa prospettiva di ricerca del sacro nella costruzione architettonica delle nostre vite.

Testi di Stefania Giazzi

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